Let's kick! Leggendo "Overland to India" di Gordon G. May, di Neophytus

La letteratura di viaggio, sia quest’ultimo reale o di finzione, è forse la più antica e persistente della tradizione occidentale. E vi è per lo meno un tratto comune che identifica in maniera infallibile il “vero” libro di viaggio dai generi spurii, se non addirittura contraffatti: un amore istintivo e profondo per ciò che appare in superficie.

Tra i bei libri di viaggio in motocicletta che di tanto in tanto mi è capitato di leggere, Overland To India di Gordon G. May, non ancora tradotto in italiano, è quello che più corrisponde allo schema ideale dell’amore per la superficie. Se la mia esperienza sul tema del viaggio in moto non fosse ancora insufficiente a fondare un solido giudizio, mi azzarderei a sostenere che il libro di May incarna lo schema ideale grazie a una cognizione delle cose ad altri sconosciuta.

Questa cognizione, in breve, è una qualità dell’uomo Gordon May ben più che una virtù letteraria (come proverò a dimostrare); una qualità che trapassa spontaneamente, come per istinto, nella felice scrittura del suo libro.

Gordon May, nato nel 1963 in Nuova Zelanda, vive da alcuni anni in Inghilterra; è un appassionato motociclista e un devoto conoscitore della gloriosa casa anglo-indiana Royal Enfield a cui ha dedicato i libri: Royal Enfield: The Legend Rides On (Royal Enfield/Eicher Motors, 2005), che celebra con ricchezza di contributi testuali e fotografici il cinquantenario della fondazione della sede indiana di Chennai (Madras); Royal Enfield - By Miles The Best! (RG Publishing, 2004), sui primi quarant’anni di storia dell’azienda (1930-1970) e corredato da minuziose note tecniche e da centinaia di disegni e fotografie; Made in Redditch (RG Publishing, 2003, 2004), un archivio per immagini dedicato alla Casa madre; Made in India - The Royal Enfield Bullet (Six and Six Publishing, 2002, 2004), una guida ai modelli di costruzione indiana, anch’esso doviziosamente illustrato.

Gordon May non è dunque un motociclista-corridore, ma un motociclista-scrittore e un esploratore del mondo-Enfield. Non scrive per compiacersi, né per farsi bello di fronte al pubblico dei suoi lettori, siano essi bikers dal sedere incallito o semplici appassionati di viaggi, o di Royal Enfield, o di quell’India reale o immaginaria che da tempi immemorabili attrae noi occidentali come le mosche. Non ha una tesi da dimostrare, non ha nemmeno un vero e proprio “argomento” a sostegno della sua ultima impresa motociclistico-letteraria, che nella tarda estate del 2008, per sei settimane, lo ha portato a percorrere 8400 miglia dal cuore industriale dell’Inghilterra, Manchester, sino a Chennai, il cuore stesso dell’India motoristica: la patria spirituale della motocicletta (“its spiritual home”) che lo ha accompagnato fin laggiù: la sua diletta Bullet del 1953.

Gordon May ha soltanto una intenzione (o se volete un sogno) da realizzare: ripercorrere all’inverso un cammino già tentato con successo diversi anni prima, nel 1956, da Alfred Barboza e John Noronha, che su una Bullet dell’epoca viaggiarono dall’India sino in Inghilterra, a Redditch, la patria originaria della Royal Enfield. “From East To West With India’s Goodwill” era la loro insegna, appesa ai fianchi di quella Bullet. Una analoga, ma più silenziosa “buona volontà” è l’insegna del viaggio di May; ed è “l’argomento” che, già dalle prime pagine, cattura il lettore e lo tiene avvinto sino alla fine.

Una fotografia che ritrae i due giovani indiani e la loro Bullet a Redditch insieme con due managers della Royal Enfield apre il libro: “The source of inspiration”, recita la didascalia. Ma questa ispirazione comincia a “lavorare” dentro Gordon May, inavvertita, almeno una ventina d’anni prima che egli dia inizio ai preparativi veri e propri del suo viaggio: “Early morning, one balmy October day, 1988. I ride a post-office red 350 cc Royal Enfield Bullet Deluxe, resplendent with rich chrome that glistens in the glow of the still rising sun, through the empty streets of Kathmandu, Nepal…”.

Tra questo lontano inizio nel sole nepalese che fa risplendere le cromature della sua prima Bullet, e la mattina della partenza da Manchester in sella alla nuova-vecchia moto del ’53, sono tutte da gustare le pagine in cui l’autore racconta dell’acquisto della sua futura compagna di viaggio a New Plymouth (Nuova Zelanda) nel 1997, del successivo trasferimento in Inghilterra e del trasporto della moto, dei lavori di restauro del telaio e del motore, delle prove su strada, dei minimi particolari che precedono la partenza, inclusa la trepidante vigilia, con il congedo dalla moglie Jane e da Jacques, l’adorato figlioletto di sei anni (un congedo invero molto “British”: pieno di tenerezza e di pudore). E finalmente, del D-day: “I’ve already lived through this morning so many times in my dreams that there’s a sense of unreality about it when I awake…”.

Il viaggio comincia, e il suo racconto contribuisce a trasformare la “irrealtà” del sogno in esperienza vissuta. Il libro di May ha infatti la forma tradizionale del diario: quella bizzarra forma dello scrivere che, per dirla parafrasando Maurice Blanchot, “fissa il movimento stesso dell’esperienza di viaggiare”. Che la forma del diario rappresenti un paradosso libero e fecondo non può sfuggire a nessuno che ci rifletta su un poco.

Racconto non è, eppure è anche resoconto di dati, fatti, incontri ed eventi raccolti nell’immediato “a posteriori” del vissuto e dettagliati con più o meno cura o perizia da chi lo ha appena vissuto: dunque è anche un “fresco” racconto. Poesia non è, eppure può conoscere inaspettati momenti di accensione lirica, come la sera stessa del rovinoso crash patito da May sulle strade pakistane: “With a strange quirk of timing, the town is struck by a power cut as I settle myself. This make the dancing lights of the moonless heavens seem even more alive. I watch the transporting vista of glittering stars for a while then sink somewhat sublimely into oblivion”.

Il diario non è neanche confessione intima e privata, eppure denuncia più di qualunque altra forma letteraria realistica o di finzione la disposizione spirituale (o l’anima) di chi lo redige: “Every night I pat [my beloved bike] on the tank and thank it for carrying me safely this far. The cage is locked, so I poke my hand trough a gap at the bottom and touch its wheel. «Thanks, my friend», I say. It’s a good job no one can see or hear me”.

In molte, per non dire in tutte le pagine di Overland To India si respira un vuoto di affettazione letteraria che è la sorgente di quell’amore per la superficie a cui accennavo all’inizio. Ed è questo vuoto a rendere “pieno” il libro di Gordon May. La forma del diario facilita certamente il suo job, che per fortuna ci è dato di “vedere e ascoltare” nell’ampia gamma delle sue sfumature; ma senza una disposizione naturale, istintiva verso la superficie, quella pienezza di esperienza, vissuta e trasmessa a chi legge, non scaverebbe così a fondo e con tanta efficacia.

La superficie delle cose, con la sua apparenza, è efficace. La superficie ci permette di distinguere la luce dalle tenebre, e ciò che è bello e buono dal suo contrario (ovviamente, non tutto ciò che è in luce è bello e buono e anche nelle tenebre riposano scintille di verità…). Insomma, guai ai calunniatori della superficie! Friedrich Nietzsche lo ha gridato molto prima di me, ed è come se il diario di viaggio di Gordon May arrotasse continuamente, a ogni pagina, a ogni giro di ruota della sua Bullet, questo ruvido concetto filosofico: la “profondità” riposa nella “superficie”. Poiché viaggiare in motocicletta è soprattutto vedere, o meglio: è imparare a vedere.

(Ora dovrete scusarmi, ma le centinaia e centinaia di cose grandi e piccole che il motociclista-scrittore vede, registra e annota nel suo diario, non possono essere oggetto puntuale di una recensione. Esse rappresentano piuttosto il piacere della scoperta che ciascuno prova nello sfogliare per la prima volta le pagine di un nuovo libro; la recensione, quando raggiunge anch’essa un po’ di efficacia, serve a stimolare la curiosità e a invogliare la lettura).

Il diario di un viaggiatore è la recensione stessa del viaggio che egli compie. Se è vero viaggio, è viaggio di esplorazione del proprio “sé” innanzi tutto. E se è vero libro di viaggio, il “se stesso” che al viaggiatore si rivela è quasi sempre completamente muto. La superba paroletta “io” vi compare quasi soltanto come esigenza grammaticale. Correlato dell’amore per la superificie che fa di un viaggiatore uno scrittore di libri di viaggio, è infatti l’inflessibile manovra di decentramento del proprio io.

L’io del viaggiatore viene “emarginato” dallo stesso viaggiatore. Non occupa mai la scena (nei veri libri di viaggio). Non conta se non come occhio che vede, impara, trasmette. Se non come occhio che ama le superfici su cui si posa. E se l’occhio è mobile per sua natura, tanto meno l’occhio del motociclista può fissarsi “a” qualcosa o essere al centro “di” qualcosa… Esso è semmai al centro di nulla, paradosso in cui si esprime, non solo l’esile struttura di una antica motocicletta riportata sulla strada (e dunque alla vita) dal suo “amante”, ma anche la forma letteraria del diario di viaggio.

Gordon May intraprende il suo viaggio al di là della Manica attraversando nell’ordine: Francia, Belgio, Olanda, Germania, Repubblica Cèca, Ungheria, Romania, Bulgaria, Turchia, Iran, Pakistan e India, quest’ultima da nord a sud; una corsa di sei settimane, in 48 tappe, che una cartina all’inizio del libro illustra utilmente. E non è solo una geografia fisica quella che la cartina interiore del motociclista descrive, è anche una geografia morale, che documenta incontri con altri esseri viventi: uomini, donne, bambini… e animali, come avviene nei bellissimi dodici capitoli del (lento) rush finale, altrettanti traguardi tagliati dall’uomo di buona volontà allo scopo di raggiungere Chennai, meta e origine del viaggio.

È questo elemento di “visione” dell’altro, degli altri, privo di quell’arroganza del giudicare o del voler estrarre a tutti i costi una lezione morale (tipica dell’antropologo, del sociologo, dello psicologo – guai alla psicologia! urlerebbe stavolta Nietzsche – e ovviamente del letterato di mestiere) che fa di Overland To India un vero libro di viaggio nel senso che suggerivo all’inizio, fatto cioè di amore istintivo e incontenibile per ciò che “mi” scorre accanto e tuttavia non è “me”, ma sono lui, lei, loro…

Il viaggiatore che vede (che impara a vedere) e non giudica ciò che vede, è tutt’altra cosa da colui che, nell’opinione comune, verrebbe qualificato come “persona indifferente”, o che il nostro padre Dante collocherebbe tra gli ignavi… Al contrario di un ignavo impartecipe, Gordon May si sente intimamente coinvolto dalle cose e dalle vicende che il suo viaggio gli propone a ogni sterzata da un paese all’altro, da una città all’altra, da uno Stato all’altro, e che per brevi momenti giungono a toccarlo.

Le manifestazioni di accoglienza e di ospitalità delle persone delle quali attraversa il cammino, per esempio, manifestazioni sempre più calorose e frequenti man mano che le ruote della Bullet lo spingono a Oriente, in direzione della meta, si può dire che lo penetrano e non che lo sfiorino solamente; ma il sentimento di empatia da esse provocato, né abolisce il disagio (la “distanza culturale”, direbbe un “-ologo” qualunque…) verso ciò che non può essere conosciuto “nel profondo” – perché lo si vede soltanto a colpo d’occhio sotto un sole, una strada, una polvere ogni volta diversi – né sopprime la coscienza critica di un uomo che sa di essere “just a regular bloke undertaking a six week motorcycle journey”.

L’occhio del viaggiatore riflette ciò che vede come uno specchio. Il suo amore verso ciò che non è “se stesso” gli proibisce pudicamente di sporcare le cose viste e la visione medesima con indebiti commenti: “I decide my policy is, as always, to take people as I find them and to refrain from judging things I cannot fully understand”. Non si tratta di “neutralità” o dell’incapacità di prendere partito. Si tratta di una intensa pulizia dell’occhio. Di una etica del viaggiare. E questa etica è il presupposto della disposizione a vivere la strada che egli ha deciso di percorrere. That’s his policy, too.

Una strada che per lui non avrebbe avuto alcun senso se non in sella a una Royal Enfield Bullet. Poiché la Bullet è l’inizio di tutto. Una moto classica, che non ha mai smesso di essere classica. Cioè se stessa. Un prodotto della tecnologia che nel corso della sua lunga storia non ha certo rifiutato i “miglioramenti” offerti dallo sviluppo della medesima, poiché “these production improvements are obviously necessary to make a modern, reliable engine that will carry the company forward”, e che tuttavia lascia ammirati “by the amount of highly skilled labour that is still used. The bikes are largley hand assembled by craftsmen”.

Una moto fatta ancora “in gran parte a mano” e rifinita a mano! Una moto “di nicchia” in Europa e nel resto del mondo, ma non in India dove si costruisce ininterrottamente dal 1955 ed è un prodotto completamente nazionale dal 1962, dopo che non solo l’Impero, ma anche lo stabilimento originario cominciò a chiudere i battenti. Una moto per intenditori, inadatta ai nevrastenici delle sgommate e delle alte velocità. Una moto classica e nel contempo moderna, come tiene a precisare Gordon May. Una moto senza tempo e perciò genialmente “inattuale”: nel nobile senso del termine coniato da Nietzsche.

“Indianizzata” legalmente nel 1995 e da sempre alla portata di larghi strati della popolazione come moto da diporto o da lavoro, buona per la città, per la campagna, per attraversare qualunque guado e per arrampicare qualunque montagna, sicura, affidabile, leggera ma robusta, “facile da guidare come una bicicletta”, la Royal Enfield è ancora la motocicletta inglese per eccellenza. È la motocicletta mite. È la motocicletta umana. È la motocicletta bella. È quella che, infatti, nemmeno dove nacque fanno più… È quella che ti incanta con le sue superfici cromate (glistening everywhere in the sun!), che ti seduce col borbottio tranquillo del suo intramontabile monocilindrico; quella che quando la fai cadere sulla duna di una strada pakistana, e la rialzi un po’ ammaccata e con la forcella storta e il manubrio quasi divelto dal suo asse, tu dài di pedale e “that wonderful, adorable machine starts second kick!”.

Ovvio che se invece non la fai cadere, “the engine bursts into life first kick”! E questo suo immediato “ritorno alla vita” dopo ben 8400 miglia filate sulle strade di mezzo mondo, senza mai bisogno di una sola riparazione, riempie giustamente di gioia il cuore del suo proprietario: “once again makes me glow inside”.

La Royal Enfield Bullet, infine, è quella motocicletta che quando un altro biker ti incontra sulla strada, non puoi fare a meno di corrispondere al suo desiderio di ammirarla e di domandare di lei e di te, e devi accondiscendere di buon grado a una sosta non preventivata… Di questi incontri, numerosi sulla lunga strada che da Manchester conduce a Chennai, Gordon May racconta diffusamente, con il sorridente orgoglio del proprietario di un bene umile, ma prezioso. Lasciamo nuovamente a lui la parola su questo argomento caro a molti: “When you take on the ownership of a classical motorcycle, I believe you inherit an obligation to talk with passers-by about both the bike and their motorcycling memories. It’s an even more frequent occurrence for Royal Enfield owners because their continued manufacture in India is an additional talking point. Sometimes these meetings and conversations arise when you’re in a hurry, or perhaps when you’re not feeling particularly chatty, but there’s an unwritten law amongst classic bike riders that you must still talk enthusiastically about your bike and listen, if one briefly, to their tales of motorcycles past”.

“C’è una legge non scritta…”. Nel tono e nell’andamento di queste parole, che ogni proprietario di una moto classica conosce e ha già fatte proprie, c’è tutto, ma proprio tutto lo scrittore, il motociclista, il viaggiatore, l’uomo Gordon May. Se una recensione critica potesse espandersi nel tempo e nello spazio a proprio piacimento, un libro come Overland To India (Rixon Groove, Stockport 2008, pp. 234 + 25 ill. a colori; www.overlandtoindia.co.uk) finirebbe per risultarne soffocato, tante sono le riflessioni, i commenti, le fantasie, i desideri interminabili e le note a margine che ha la virtù di suscitare… Ma per fortuna le recensioni hanno una dimensione e una sede loro appropriate.

Overland To India è un libro che si può leggere a doppia velocità per lo meno. Non a caso racconta di un viaggio in motocicletta. Lo si può leggere tutto d’un fiato o centellinare di capitolo in capitolo assaporando le sue “giornate” tappa dopo tappa. Se si è proprietari di una Bullet o si sogna di averne una, molto probabilmente la seconda delle due sarà un’opzione spontanea.

I proventi derivati dalla sua vendita concorrono a finanziare l’associazione umanitaria non governativa WaterAid operante in India (www.wateraid.org/uk). Anche questo è Overland To India. E anche questo ci dice chi è Mr Gordon May.

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Commenti

Se posso permettermi sei stato decisamente troppo prolisso. Io ho letto tutto ma ho fatto obiettivamente parecchia fatica. Appena ho visto la lunghezza dell'articolo ho deciso che appena avrei avuto una ventina di minuti liberi l'avrei letto con calma. 

Insomma complimenti ma il tuo più che una recensione è quasi un bignami.

Detto questo pare interessante come libro.