Pregiomi ammorbarvi con racconto ed immagini del mio, ennesimo, viaggio in Ladakh.
Buona lettura!
LA STRADA VERSO IL CIELO
La ventola gira pigra sul soffitto; spinge giusto quel refolo d'aria verso il basso che consente di respirare senza avere la sensazione di soffocare. L'umidità, per quanto ci si danni a raschiarla dai muri, è parte integrante del tutto. L'odore stantio della muffa impregna, oltre ai tessuti, questo torrido tramonto indiano.
Fuori la voce del muezzin chiama i fedeli alla preghiera, dopo una giornata di passione dedicata al Ramadan. I corvi, appollaiati sull'albero prospiciente, non cessano un istante di contarsela su con le loro voci stridule e fastidiose.
Sotto, in strada, ragazzini si rincorrono brandendo piccoli bastoni di bambù, impegnati in una tenzone infantile. L'aria è immobile, come ferma è la mia mente.
Sono arrivato a Delhi da due giorni, e da due giorni mi trascino, in mutande, per la stanza che ho preso a Pahar Ganj. Sto definendo gli ultimi dettagli, prima che arrivino gli amici con cui ho progettato questo viaggio.
Prenderemo quindi possesso delle nostre Royal Enfield, e percorreremo uno dei più suggestivi itinerari che molti motociclisti vorrebbero, io aggiungo dovrebbero, affrontare almeno una volta nella vita; l'attraversamento del Ladakh, nell'Himalaya indiano.
Delhi è congestionata, come sempre. Le auto, i furgoni, i rickshaw, i carretti carichi all'inverosimile di mercanzie, sono parcheggiati con accurata indifferenza, lasciando ai malcapitati in transito l'infausto compito di arrangiarsi per districarsi tra lamiere, vacche, porters e quant'altro sia in grado di deambulare su una strada.
Provate a moltiplicare questi atteggiamenti per x mila, con un sottofondo continuo e martellante di clacson unito ad un tasso di umidità da sauna finnica e avrete, grossomodo, un'idea di cosa voglia dire guidare da queste parti.
In India il concetto di precedenza è regolato dalle dimensioni del veicolo. Se guidi un camion, o bus, puoi arrivare da qualsiasi parte, anche contromano, e avrai sempre via libera; se invece due mezzi, anche di pari “lignaggio”, convergono verso lo stesso punto, chi avrà la meglio sarà colui che metterà per ultimo il piede sul pedale del freno, posto che abbia nozioni sufficienti per farlo.
Con il nuovo giorno parte un nuovo giro di pista. La città, che non si addormenta mai del tutto, riprende a carburare lentamente. I Tuk Tuk approfittano dei viali poco trafficati per sfrecciare impuniti attraverso incroci e semafori ignorati bellamente.
Le pensiline dei bus, i marciapiedi, e le aiuole spartitraffico resuscitano un'umanità invisibile, a cui ben presto ci si abitua, quantunque si faccia di tutto per celarla alla propria coscienza, come quando si nasconde la polvere del pavimento di casa sotto al tappeto, perché non si ha voglia di raccoglierla.
Ogni spazio, anche quello più improbabile o apparentemente angusto per le abitudini occidentali, rappresenta per interi nuclei familiari la sola possibilità di riparo, a poca distanza dall'incrocio, il loro posto di lavoro.
E' uno spettacolo che va in onda ogni giorno dell'anno non solo nella capitale, ma sul palcoscenico della vita di ogni città indiana, piccola o grande che sia non importa; di comparse pronte a recitare questo ruolo ce ne sono milioni.
Donne con bambini, ragazzetti, mutilati o vittime della lebbra, anziani caduchi e storpi si appostano ai crocevia, nelle aree a forte flusso, davanti ai caffè frequentati dai turisti, ai locali di Connaught Place.
Pahar Ganj non è immune da queste dinamiche; essendo la zona maggiormente frequentata dai turisti, almeno da quelli che non pretendono come standard hotel pluri stellati e trattamento in guanti bianchi, viene giornalmente invasa da questo esercito di fantasmi, il quale si aggira, cadenzando nenie, tra bancarelle di frutta, negozi di souvenir, caffè, ristoranti e igiene scadente.
Già, l'igiene; sovente gli occidentali vengono spiazzati dal contatto con questo aspetto non considerato, ma complementare alla quotidianità indiana. Un miliardo e rotti di persone, per quanto la maggioranza nuoti in apnea nel mare della povertà, rappresentano un potenziale di produzione di rifiuti, a velocità elevatissime, per noi inimmaginabile.
Come vuole la prassi, nei paesi in via di sviluppo e non solo, vista la montante deficienza di senso civico anche all'ovest, ci si preoccupa primariamente di riempire lo stomaco, piuttosto che liberare le strade da cumuli putrescenti di immondizia varia e patologie pericolose.
Comunque, questa non è, e non vuole essere, una dissertazione di etica sociologica, nemmeno di quella spiccia da discount; quindi riprendiamo a parlare del motivo principale per cui mi trovo ivi allocato.
Questa è la terza volta che arrivo in India; la prima in aereo e senza la mia Harley. La decisione è motivata dalla volontà di rivedere paesaggi estremi e di misurarmi in un ruolo nuovo; quindi eccomi a salutare Gilles, Florence, Alban, Coralìe, Valèrie, Ginès e Gabriela, tutti pronti per un'esperienza straordinaria, fuori dagli schemi, e dalle rotte classiche.
Trascorsa la notte insonne, a causa del rumore da V8 scarburato emesso dal condizionatore, non regolabile, la mattina seguente ci imbarchiamo sul volo Air India che in cinquanta minuti ci trasla a Leh.
L'atterraggio dà subito la misura dell'unicità di queste aspre terre; disegnando un'ampia parabola discendente l'aereo entra nella valle dell'Indo, infilandosi tra due coste rocciose prima di atterrare, a 3.500 metri di altitudine.
La presa di contatto con le Bullet 500 avviene sulla strada che conduce allo Shanti Stupa di Changspa, ad ovest di Leh. La sommità del tempio buddhista si offre come teatro da cui ammiriamo lo spettacolo dell'oasi adagiata nella vallata sottostante.
Le vette perennemente innevate dello Zanskar Range si stagliano compatte come un immane muro all'orizzonte, dall'altra parte dell'Indo.
La sera il gruppo scende lungo Fort Road per la cena di benvenuto al Dreamland; poi tutti a nanna, per essere pronti a cominciare. L'eccitazione è palese, palpabile; tutti sono ansiosi di far rotolare finalmente le ruote.
Destinazione della giornata è la Nubra Valley, a nord di Leh, che raggiungiamo dopo aver doppiato il Khardung La, il più alto, 5.602 metri dicono i cartelli, passo carrozzabile al mondo.
L'ascensione, 39 km, ci vede impegnati per un paio d'ore; prima per una breve visita allo Tsemo Gompa, ed in seguito a causa di una frana che costringe i viandanti ad attendere lo sgombero della strada.
Una volta raggiunta la sommità, e scattate le foto di rito, cominciamo la lunga discesa che ci porta a Kolsar, adagiata sulla sponda sud del fiume Nubra.
Facciamo base a Hundar, per un paio di giorni. Da qui effettuiamo un'escursione a Turtuk, uno sperduto villaggio Kashmiro, quindi a maggioranza musulmana, in prossimità della Ceased Fire Line, il confine ufficioso col Pakistan; oltre questo punto solo i militari dell'esercito sono autorizzati a proseguire.
Hundar offre inoltre lo spettacolare scenario delle dune di sabbia, solcate dai cammelli della Bactriana. Sono l'ultimo retaggio dei tempi in cui le carovane erano use percorrere questo ramo della Via della Seta, il quale, valicando il passo Karakorum e il ghiacciaio Siachen, conduceva a Kashgar, nel Turkestan Cinese.
La durezza estrema, e la bellezza degli scenari conquistano il gruppo; questa sarà, non ci voleva un indovino per prevederla, la costante principale del tour. Si viaggia con un occhio alla strada, stretta ma poco trafficata, e l'altro impegnato a catturare fotogrammi attraverso camere digitali, videocamere e smartphone vari.
All'alba, si fa per dire, del terzo dì la banda si appresta a coprire la tappa più lunga in programma; ci sono 230 chilometri da percorrere, e due passi oltre i 5.000 metri da valicare, prima di raggiungere le chete sponde del Pangong Tso, un lago glaciale condiviso con il Tibet.
Una volta lasciata la Nubra Valley cominciano le prove di abilità; strada male in arnese, guadi di fresca acqua montana con fondo di pietre, salite ripide tra pascoli e yak. Le soste sono frequenti per consentire a moto e conducenti di riprendere fiato, vista l'impegnativa altitudine.
Dopo aver doppiato il Chang La scendiamo verso Tangtse, non prima di aver affrontato l'ennesimo torrente che si è impadronito della strada.
Raggiungiamo le tende in riva al Pangong Tso quando il sole è già tramontato, percorrendo al buio, sul fondo ghiaioso, gli ultimi chilometri.
Sono tutti provati per la lunga giornata trascorsa in sella; ma nonostante ciò anche Florence e Coralie, le due amazzoni motorizzate, conservano il sorriso, stanco ma di piena soddisfazione.
Avvolto nelle coperte, la notte pare non voler mai finire; un fastidioso mal di testa dovuto all'altitudine, siamo pur sempre allettati ad oltre 4.000 metri, fa il resto. Trascorro insonne buona parte del tempo, mettendo di tanto in tanto il naso fuori dalla tenda, per rubare qualche scatto alla luce che pian piano rischiara le vette del versante cinese.
La compagnia si muove con moderata solerzia, dopo colazione. Qualcuno, prevalentemente i transalpini del gruppo, mal digerisce le levatacce ordinarie, figuriamoci quelle in vacanza; ma si tratta pur sempre di un viaggio in moto che, per quanto organizzato al meglio, richiede comunque un minimo di spirito di adattamento.
Lasciamo lo stupefacente panorama del Pangong Tso, doppiamo di nuovo il Chang La e “atterriamo” ad Upshi, sulle sponde dell'Indo. La lunga pausa pranzo ci sta tutta.
A proposito, la cucina indiana, si sa, è piuttosto tendente allo speziato piccante, per cui non a tutti risulta di facile assimilazione; Dahl, Aloo Gobi, Byriani, Chicken Tikka, e altre leccornie saranno la costante, volente o nolente, della nostra dieta per tutta la durata del viaggio. Qualcuno palesa sin da subito qualche idiosincrasia con l'inevitabile presenza di peperoncino e spezie varie ma, con un po' di sforzo ci si può abituare, o quasi.
Attraversato l'Indo entriamo nella stretta valle di Rumtse; roccia rossa e pareti verticali ci introducono all'ascensione verso il Tanglang La, altro gigante da affrontare con le nostre Enfield.
A questo proposito, ritengo assolutamente doveroso spendere parole di elogio sulle capacità da grimpeur di queste “motozappe” indo-britanniche.
Viene quindi naturale paragonare le mie precedenti esperienze himalayane, in Harley, a quella che sto attualmente vivendo a cavallo del proiettile di Chennay.
Con il bisonte di Milwaukee c'era da “remare”, e non poco, per tenere a bada lungo le mulattiere del Ladakh gli oltre trecento chili che avevo sotto al sedere. Oggi, con la metà del peso tra le mani e una passeggera, Valerìe, pare di essere uno Yak che lemme lemme, ma con tenacia, si arrampica borbottando su per i brulli e ventosi declivi.
Viaggiando di conserva e senza fretta, siamo pur sempre in vacanza, raggiungiamo lo Tso Kar, o quello che resta di un lago salato, nascosto in una valle laterale delle Moran Plains.
Siamo anche qui in altura, 4.500 metri, ma abbiamo la fortuna, o il lusso, di pernottare in stanze di muratura. La spettacolare stellata, con tanto di ostentazione della Via Lattea, induce alcuni soggetti ad una passeggiata sulle sponde dello specchio d'acqua, dove qualcuno si prende anche la briga, ah l'impavido, di dare la caccia alle stelle cadenti.
Non tira un alito di vento e la temperatura è insolitamente mite a questa altitudine. Ne facciamo, ovviamente, tesoro, dato che la notte trascorre indenne da brividi di freddo e mal di testa.
Siamo nel bel mezzo della Manali-Leh, la strada che collega lo stato dell'Himachal Pradesh alle montagne ladakhe dello Jammu & Kashmir. Tra le numerose soste non può mancare quella al campo di Pang, un pugno di tende sparse tra la strada e l'omonimo fiume, sul fondo di una valle di arenaria giallo ocra.
Tappa obbligata per tutti i viandanti in cammino da o per Leh, Pang rappresenta la mezza via, il compimento di metà dell'opera, ma anche una impegnativa prova da superare.
I 4.400 metri di altitudine possono rivelarsi fatali se raggiunti in un lasso di tempo troppo ristretto. L'errore che alcuni commettono infatti, è quello di viaggiare con eccessiva fretta, indipendentemente dalla direzione scelta.
Valicare passi tra i quattro e i cinquemila metri, anche per chi da queste parti ci vive, necessita di un tempo minimo affinché il fisico possa adattarsi alla rarefazione dell'aria e alla conseguente carenza d'ossigeno.
D'accordo l'adrenalina, la voglia, l'entusiasmo di percorrere questa strada d'altri tempi, ma è fondamentale prestare attenzione all'integrità del nostro fisico.
Lasciamo Pang sotto una leggera pioggia, che ricopre ben presto la NH 21 di un delizioso strato di fanghiglia; niente di inaffrontabile beninteso, anzi servirà agli altri come antipasto per quello che verrà affrontato tra due giorni, quando lasceremo la Lahaul Valley per scendere verso Manali.
Non è ancora arrivato il tempo di affrontare sua malignità il Rothang La, il più basso, ma al contempo il più difficile ed insidioso, passo da valicare lungo la strada che porta verso il cielo. Ragion per cui continuiamo per la nostra rotta, umida ma comunque percorribile, pur con qualche sacramento.
Sarchu è il secondo check point che affrontiamo ed è anche il luogo dove passeremo la notte. La località non è che un agglomerato stagionale di tende che fungono da ricovero per viaggiatori ordinari e turisti motorizzati.
Anche qui gravitiamo intorno ai 4.000 metri; piove ma non si barbella dal freddo come in passato, quando arrivai a metà settembre trovando il termometro già sotto lo zero in pieno pomeriggio.
La tenda principale del campment ospita la dining room; tra le zuppiere del buffet spuntano, in ordine, una mirror ball, luci strobo e consolle da DJ: signore e signori, benvenuti nella più alta discoteca del mondo!
Fuori, intanto, continua a piovigginare; il percorso che ci attende domani, circa 100 km, fino a Keylong non dovrebbe essere troppo impegnativo per i ragazzi, e le ragazze, anche in caso di pioggia.
Ci saranno alcuni piccoli guadi da affrontare, ma sono la norma su questa strada; quello che mi preoccupa è cosa potremmo trovare sulla cima del Rothang, notoriamente l'osso più duro da masticare per saziarsi completamente.
Le precedenti esperienze di scollinamento sul passo sono bene impresse nella mia mente; code di veicoli fermi in attesa che la strada venisse ripulita da una frana, acqua, vento gelido ed impetuoso e tanto fango.
Di contro si sa che in Asia, e quindi in India, nulla può mai essere dato per scontato. Quello che oggi è buono non è detto che lo sia anche domani, e viceversa. Perciò convengo che sia inutile fasciarmi preventivamente la testa con avventate preoccupazioni. Cominciamo ad arrivare in vetta, poi si vedrà; buonanotte.
L'aria del mattino è frizzante, decisamente. Le nubi, grigio piombo, ci danno il buongiorno. Esaurite, in un amen, le scorte di uova e caffè della piccola cucina da campo, la banda si accomoda in sella per un'altra giornata di gastronomia motociclistica.
Il menù odierno prevede un tris di passi, tutti oltre i quattromila metri, che rispondono ai nomi di Nakee La, Lachulung La e Baralacha La, che la strada ci scodella quasi senza soluzione di continuità. Come contorno abbiamo i 21 tornanti del Gator Loop, dove la strada scende contorta verso la Lahaul valley e da qui, procedendo a mezza costa nella roccia, raggiunge Keylong; la terra promessa. Sono infatti quattro giorni che, a causa delle sistemazioni spartane e del contesto ambientale, non proprio da Club Med, i valorosi componenti della banda non assaporano i piaceri di una doccia calda. Keylong ci accoglie a bagni aperti per una meritata, e necessaria, strigliata.
Piccolo inciso; se qualcuno dovesse interessarsi a questo percorso sappia che i disagi nel tratto tra Keylong e la valle dell'Indo, vale a dire circa 300 chilometri, sono parte integrante dell'esperienza, la quale non potrebbe definirsi tale senza un minimo di “patimento” igienico-logistico.
Altrimenti tanto vale mettersi l'animo in pace ed arenarsi, rassegnati e con eterno rimpianto, sulle spiagge versiliesi o romagnole; verba volant, acta manent.
Abbiamo oramai lasciato il Ladakh, entrando di fatto nell'Himachal Pradesh. Keylong è pur sempre situata, sul fondo di una valle, ad oltre tremila metri, ed il paesaggio sta inesorabilmente cambiando mano a mano che procediamo verso sud.
Compaiono i primi, piccoli, appezzamenti di terreno coltivato: alberi da frutto, mele e albicocche in prevalenza, e vegetazione varia. Entriamo a Keylong nel pomeriggio, masticando la polvere della strada, in perenne rifacimento.
A cena condividiamo la sala con quattro coppie di maturi piemontesi, alle prese con una serie di trekking nella zona. Gli arditi esploratori, impavidi dinnanzi ad ogni oscura incognita logistica e alimentare, sono alle prese con verdure, purè e penne al sugo, preparate appositamente dal cuoco che si portano dietro. Io e Valerìe ci guardiamo spiazzati, non sapendo se ridere di loro od invidiarli per il desco scevro da sapori esotici marcati.
La parte razionale mi fa propendere per una esecrabile condanna all'italico esempio di integralismo alimentare; l'altra, quella meno azzimata e più troglodita, mal cela una sottile invidia.
Fatti salvi i primi giorni, e la stoica resistenza di Valerìe e Coralìe, noi altri si da di gomito sempre di buona lena ogni qualvolta ci viene piazzato un piatto sotto al mento; questo c'è, questo ci tocca, altrimenti, come già chiaramente espresso sopra, Versilia, Romagna e pedalare.
E venne il giorno del Rothang, il gigante di fango. Come sovente accade, il sole splende alto nella Lahaul Valley, infondendo fiducia al gruppo, già perfidamente suggestionato dai miei epici racconti da tregenda.
Sono tutti desiderosi di misurarsi con questo fantomatico spauracchio che porta il nome di Rothang; in lingua ladakhi Rothang è traducibile come catasta di corpi.
Questo nome il passo se lo guadagnò a metà dell'ottocento, quando in un funesto pomeriggio decine di operai addetti alla costruzione della strada vennero sorpresi da una repentina e tremenda bufera di neve, la quale non lasciò scampo a nessuno dei poveri malcapitati. Da allora il Rothang ha accresciuto la sua fama sinistra di passo impossibile.
La banda è su di morale, il cielo terso contribuisce a rafforzare lo spirito di gruppo e le preoccupazioni per l'ultimo valico appaiono lontane e a detta di qualcuno fuori luogo, lesinate con il solo scopo di incutere un timore reverenziale apparentemente ingiustificato.
L'ultimo check point a cui sottostiamo è quello di Damphug, giusto ai piedi dell'attacco al passo. Caffè, foto ai variopinti e stracarichi camion in rotta verso Leh, slanci di pigrizia da parte dei transalpini, un vero ossimoro questo e, al fine, siamo pronti.
Come volevasi dimostrare; la NH 21 parte subito, in salita, col piede sbagliato. Dell'asfalto che tre anni fa consentiva di raggiungere il culmine quasi comodamente e senza scossoni, ora non resta più nulla; solo pietre, sabbia, qualche rigagnolo d'acqua e 24 tornanti da affrontare.
Inoltre il vento, proveniente dalla cima, sta portando il fronte di nubi ad oscurare il cielo; ci siamo, la battaglia può finalmente cominciare.
Presto gli altri spariscono avvolti dalla gelida foschia, che scollinando sulla cima sta ora invadendo senza pietà anche il versante nord. Comincia ben presto a piovere, o meglio; oltre alle nuvole attraversiamo anche l'acqua in esse contenuta. La temperatura cade in picchiata; ci fermiamo a bordo strada, poco dopo il valico, per provvedere con gli appositi capi anti acqua.
Del fango che imperava da queste parti non restano che pochi tratti, mediamente ostici, inframezzati dalla piacevole presenza di un nero nastro d'asfalto. Il nostro incedere continua, lento ma costante, sotto l'acqua e tra i numerosi camion che arrancano ed ondeggiano paurosamente ad ognuno dei 53 tornanti che conducono a Palchan e all'imbocco della Solang Valley.
Da qui, raggiungere Manali e quasi un gioco, se paragonato a quello che abbiamo affontato nei giorni scorsi.
Due giorni di sosta, di meritato relax, in una delle più famose località di villeggiatura del Paese, ci consentono di recuperare energie prima del rush finale.
Ci restano, infatti, ancora un paio di impegni da ottemperare, prima che il tour abbia il suo epilogo a Delhi.
Il primo porta il nome di Jalori Pass, valico posto a 3.120 metri, raggiungibile arrampicandosi, letteralmente, su una stretta irta sterrata tra vegetazione rigogliosa e innumerevoli meleti, prodotto principe dell'Himachal Pradesh: l'altro, non commestibile ma fruibile in altri modi, è assolutamente illegale.
La seconda “incombenza” riguarda Shimla, capitale estiva ai tempi del Raj Britannico e oggi rinomato centro di villeggiatura per gli Indiani benestanti.
Shimla, capitale dello stato, e stata edificata su diversi versati delle propaggini himalayane, circondata da vegetazione dirompente e brume monsoniche che le conferiscono un atmosfera sospesa, senza tempo.
L'ultimo giorno in sella lo spendiamo scendendo lungo l'interminabile toboga di curve e controcurve che la NH5 ci propone prima di rimettere le ruote in piano a Chandigarh.
Riconsegnamo, non senza un pizzico di malinconia, le motociclette, accomodandoci nella 1° classe dello Shatabdhi Express che, a dispetto del nome, impiegherà quasi cinque ore per coprire i 240 chilometri che ci separano da Delhi.
L'arrivo nella capitale avviene di sera, sotto lo scrosciante benvenuto del monsone, che tutto lava e allaga, senza distinzioni di sorta, e casta.
Il trasbordo, dal treno, al taxi, all'hotel, avviene in un silenzio quasi surreale, come se nessuno volesse rompere questa sorta di incantesimo che si è creato nel gruppo. E' un silenzio che ben conosciamo, che abbiamo imparato ad apprezzare sulle mistiche strade del Ladakh, dove la parola non è obbligo, anzi, la parola interrompe i pensieri meditativi che lassù pervadono ogni corpo, ogni anima avventuriera che decide di percorrere la strada verso il cielo.
La parola non serve: basta indagare gli sguardi trasognati, gli occhi pervasi dalla stessa luce emotiva, che accende i ricordi ed illumina i sorrisi di ognuno di noi, per quello che è stato, fisicamente, ma che sempre sarà nel nostro intimo più profondo.
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