Neophytus
... ehm, devo continuare?...
Perché non desidere annoiare 🙂
Federico
continua, grazie.
è un piacere leggerti ed è piacevole farlo anche così, a piccole dosi. :thumb:
Herzog
qui non si fiata per non disturbare, in attesa del seguito
(io sono ormai cianotico)
Slowhand
Se vuoi fare una pausa per un bicchiere di Valpolicella*, ben venga. Ma sia solo una pausa.
*In merito al Valpolicella, ho sempre avuto un dubbio "letterario" che forse potrei finalmente sciogliere col vostro aiuto.
In "Di là dal fiume e tra gli alberi", ambientato tra Venezia e Trieste, Ernest Hemingway fa bere al protagonista, il colonnello Richard Cantwell, innumerevoli bottiglie di "Valpolicella", vino che il colonnello preferisce a tutti gli altri.
Ora, anche a me piace molto il Valpolicella (anche se forse non quanto al colonnello Cantwell), ma, ciononostante, mi risulta difficile pensare che qualcuno, sia pure un americano, possa ritenerlo il vino migliore del mondo; epperò, il suddetto Ernest di certe cose se ne intendeva. Da qui il dubbio: non è che il vecchio Ernesto, tra un drink e l'altro, chiama "Valpolicella" quello che per noi poveri assicuratori illetterati (ma con pretese da sommelier) è l'Amarone?
bob_cappello66
Ciao, continua...
Neophytus
Grazie ragazzi, per me è un piacere, ma so anche che il forum non è un blog personale... Se c'è "interlocuzione" vuol dire che un topic funziona.
Quanto alla domanda sul Valpolicella: giro la questione a WoL, che è un esperto (forse anche Serpico potrebbe dirne qualcosa). A me piace molto. Ma, confesso, "Al di là..." è uno dei libri di Ernst che non ho letto... :reddy:
AndreaBeatles
Neophytus wrote... ehm, devo continuare?...
Perché non desidere annoiare 🙂
Mi lasci sognante nel Trentino e vorresti pure fermarti???
WoL
Allora di Valpolicella ce ne sono di diversi tipi, è in effetti possibile che H. Generalizzasse perché oltre all'amarone (che per l'epoca era abbastanza recente) c'era anche il Recioto (dì Valpolicella) da cui è derivato l'Amarone che è sempre un passito ma amaro e non dolce.
Di Valpolicella ce ne sono sempre state di diverse qualità (ora caratterizzate col nome classico, superiore) e alcune sono veramente superbe per cui può essere che si riferisse proprio al Valpolicella ma l'unico che lo può sapere temo sia lui.
Io comunque non sono un esperto ma il Valpolicella (in tutte le sue varianti) è il mio vino preferito.
Ps: di sicuro non si riferiva al ripasso perché è molto recente.
serpico
Certo è che se si beveva bottiglie di amarone teneva bene l'alcool. .. e teneva pure una bella cantina.
Neo e allora?
Neophytus
WoL wroteAllora di Valpolicella ce ne sono di diversi tipi, è in effetti possibile che H. Generalizzasse perché oltre all'amarone (che per l'epoca era abbastanza recente) c'era anche il Recioto (dì Valpolicella) da cui è derivato l'Amarone che è sempre un passito ma amaro e non dolce.
Di Valpolicella ce ne sono sempre state di diverse qualità (ora caratterizzate col nome classico, superiore) e alcune sono veramente superbe per cui può essere che si riferisse proprio al Valpolicella ma l'unico che lo può sapere temo sia lui.
Io comunque non sono un esperto ma il Valpolicella (in tutte le sue varianti) è il mio vino preferito.
Ps: di sicuro non si riferiva al ripasso perché è molto recente.
Grazie Wol! 🙂
La discussione, naturalmente, resta aperta ad altri contributi 😉
Neophytus
serpico wrote Certo è che se si beveva bottiglie di amarone teneva bene l'alcool. .. e teneva pure una bella cantina.
Il vecchio Ernest? Se teneva bene l'alcool? Sicuramente più del suo amico Francis Scott Fitzgerald, delle cui sbornie racconta in quel bellissimo libro che è Festa mobile. Quanto a lui... I suoi libri sono i più alcolici della letteratura mondiale (insieme a quelli del boliviano Jaime Saenz) 🙂
serpico wroteNeo e allora?
Più tardi, senz'altro. Grazie per l'incoraggiamento 🙂
Neophytus
E allora, riavvolgiamo il gomitolo.
Devo dire, tuttavia, che del trasferimento da Vinovo a Milano non ho quasi ricordo, e devo consultare le mappe.
Che ho preso per Moncalieri, sì; che ho bevuto un caffè a Chivasso, sì; che ho tirato lungo presso Vigevano per non tardare all'appuntamento con Ezio e Clelia, sì; che non ho sbagliato strada nemmeno una volta :rolleyes: e ho puntato il navigatore per il quartiere Isola soltanto alle soglie di Milano, sì; ma la strada che ho fatto, i paraggi che ho osservato, le sensazioni che avrò pur provato: a dieci giorni di distanza è stato inghiottito tutto quanto da una specie di buco nero della memoria, che non mi ha ancora restituito nulla. Sarà che ho la mente piena delle immagini assorbite durante i giri fatti i giorni precedenti in compagnia degli amici torinesi? L'esperienza al calor bianco dei giorni precedenti deve aver fatto terra bruciata di quello successivo, e ha prodotto questa strana lacuna. Poco male. Parlerò di Milano, che stavolta non ho girato per niente, ma a cui non smetto di tornare, da quaranta e più anni almeno.
Neophytus
Milano mi piace. Mi è sempre piaciuta: sin dal tempo in cui, bambino, intravvidi dal finestrino del treno l'immensa volta a botte della stazione centrale, così simile alle immagini della Victoria Station che avevo visto al cinema o alla televisione.
Da adulto, vi sono stato innumerevoli volte, sempre per poche ore alla volta, e non ho finito di visitarla e di conoscere le sue bellezze. Che ci sono, e in quantità, malgrado il pregiudizio comune che fa di Milano una città opaca, se non decisamente brutta. Troppo facile contrapporla a Roma avendo negli occhi soltanto i quartieri centrali della Capitale; o alle altre grandi città italiane: Napoli, Genova, Torino, tutte portatrici di un messaggio urbanistico (e storico-politico) completamente diverso. La sua storia rende Milano una città che si fa ammirare per grandi o piccoli frammenti, dei quali brulica, sin nello stesso nucleo originario romano - ancora perfettamente leggibile - e poi medioevale, e poi rinascimentale, e poi spagnolo, neoclassico, modernista e qua e là razionalista; e ciò in virtù di una successione di stili e di una giustapposizioni di epoche che hanno pochi confronti, credo, con le principali città europee. Io, per lo meno, è così che vedo la forma urbis di Milano: come un grande laboratorio storico dell'architettura religiosa e civile occidentale, in cui la novecentesca Torre Velasca convive senza polemizzare con la rinascimentale Santa Maria presso San Satiro e la romanica Sant'Ambrogio, o la grande macchina in panne perpetua del Duomo gotico comunica disinvoltamente con il dinamismo dell'attuale, ottocentesca (elegantissima) Piazza Cordusio... Io, poi, ogni volta che mi capita di essere a zonzo, mi faccio una passeggiata per via Moscova e mi guardo e riguardo quel capolavoro dell'architettura italiana del Novecento che è la Ca' Brüta di Giovanni Muzio; oppure piglio il tram e mi fiondo alla Bicocca, all'Hangar che custodisce la straordinaria installazione di Anselm Kiefer e alcuni dei suoi quadri più belli. E quante altre città del mondo, mi domando, possono vantarsi di raccogliere insieme Kiefer e Michelangelo (la Pietà Rondanini!), Gio Ponti e Bramante, Ernesto Nathan Rogers e Filarete; e Aldo Rossi e Carlo Aymonino (il quartiere Gallaratese), e Leonardo e Piero della Francesca... Dall'ultima visita all'Accademia di Brera, nel giugno scorso, data l'accendersi della mia passione per Piero, e posso ben dire che proprio qui a Milano ho cominciato a spedivellare (virtualmente) la Bullet affinché mi trasportasse nei luoghi in cui del sommo pittore quattrocentesco si conservano le altre opere visibili (l'invisibile che le connette alle stazioni di questo motogiro forma la trama del mio "viaggio intimo" sulle sue tracce).
Oggi a zonzo non ci vado. Entro a Milano in motocicletta per la prima volta e mi dirigo... in Isola! Già, perché fra i tanti frammenti di cui Milano rappresenta il mosaico, recentemente ho scoperto una "Isola che c'è". 🙂 È il quartiere in cui vivono Ezio e Clelia, appena al di fuori del tracciato medioevale, oltre Porta Garibaldi, praticamente alle spalle della stazione ferroviaria. Ezio lo scorgo seduto al bar cinese di Via Pollajuolo, lui solleva il capoccione da sciamano :rolleyes: al mio thump-thump e con la mano mi fa segno di proseguire verso la Piazzetta Archinto. È dove parcheggio la moto e mi viene incontro Clelia in bicicletta. Di lì a un momento ecco pure Ezio. E ci sediamo in Piazzetta a bere un drink (io a sgonfanarmi una focaccia imbottita).
Dell'Isola devo proprio parlare. Avete presente un borgo di paese, autosufficiente e compatto, omogeneo in ogni sua parte? Avete presente un'isola?... L'impressione, ogni volta che ci capito, è di vedere sempre gli stessi volti, e che i suoi abitanti non escano mai da lì. Indubbiamente, l'impressione è corroborata dalla presenza, sciamanica mica per scherzo, di quel bel soggetto di Ezio. Chi non lo conosce, in Isola? Gli aperitivi portano il suo nome (non scherzo!); una certa sedia sul marciapiede del bar cinese è la sua sedia: e guai a chi si azzarda a sderenarcisi sopra... se Ezio minaccia di fare la sua apparizione. Perfino il tempo, qui in Isola, sembra scandito dalla presenza (e dall'assenza) di Ezio... Lui e Clelia mi hanno sempre accolto e ospitato con infinita gentilezza. E un pezzo del mio "cuore milanese" è ormai definitivamente custodito nella loro Isola.
Trovo curioso, che una metropoli come Milano custodisca delle "isole" al suo interno. Isole, perché il loro territorio è marcato (posseduto) dai suo abitanti e le relazioni che vi si svolgono risultano addirittura costruite, edificate come pietre (la sedia di Ezio!), dalle loro abitudini (il verbo latino habere - possedere - genera habitus e habitare). Ma è anche confortante il pensiero che, forse, in altre metropoli come Milano vi siano altrettante isole abitate-costruite da altrettanti Ezii e Clelie: indigeni 😉 generosi che aprono i loro quartieri e le loro case allo straniero, al viaggiatore, all'esule; come ai tempi di Ulisse. Ignoro se Roma è così. Mi dicono che Londra, Parigi, New York lo siano. Per quel che so e ho visto, Chicago e Buenos Aires sono fatte anche di isole, oltre che di ghetti orrendi. Il cinema, la letteratura, sempre più ci narrano di futuri distopici nei quali il senso "originario" dell'essere "a casa" si traduce tutt'al più, distorcendosi disperatamente, nella possibilità di "isolarsi" nel proprio appartamento; che non è mai un posto "sicuro", mai una vera "casa": come in alcuni racconti di Julio Cortázar e di Felisberto Hernández; come nel film Brazil di Terry Gilliam. E chi non ha visto il capolavoro di Ridley Scott, quel Blade Runner che, oltre a mostrare una Los Angeles mostruosamente notturna e perennemente piovosa, insinua addirittura il sospetto che neppure nella "dimora" del proprio corpo, del proprio essere fisico, vi sia più la sicurezza di essere a casa?
Milano è tuttavia una metropoli. Dunque una città non ancora pienamente "postmoderna", non ancora una megalopoli, malgrado il suo territorio superi già in ampiezza quello di Parigi. L'immagine della metropoli moderna-contemporanea rimane fissata dal film di Fritz Lang, che è del 1927 e si avvale delle suggestioni abitativo-urbanistiche provenienti da tanta parte dei coevi teorici dell'architettura (Le Corbusier in primo luogo, secondo me). La Metropolis di Lang è ancora l'utopia di un luogo abitabile. Assolutamente inabitabili sono le città immaginate dai grandi autori di fantascienza dell'epoca in cui viviamo: Philip Dick, Greg Bear, William Gibson. Quest'ultimo crea il termine "sprawl" per descrivere gli sterminati e indistinti agglomerati urbani (New York-Boston-Baltimora; Los Angeles-San Francisco-Seattle; Tokio-Yokoama, ecc.) che popoleranno la Terra in un non lontano futuro. La previsione è agghiacciante. In quegli "sprawls" non sarà più possibile né camminare né viaggiare, ma soltanto "spostarsi", e tanto più virtualmente quanto meno con il proprio corpo fisico. La possibilità e il senso residuo dell'abitare - marcare un territorio - farlo corrispondere alla propria personalità - renderlo simile a sé - saranno irrevocabilmente perduti. Come già lo sono, paradossalmente, in molte città della provincia italiana, che non hanno mai conosciuto o hanno disgregato le "isole" che navigavano al loro interno (Venite a Mestre e a Venezia, per crederci).
Dev'essere per questo che mi piace Milano. Che mi piace così com'è. Perchè è l'immagine di un'utopia.
Herzog
ventotto minuti di applausi (due minuti per una pausa, a tirare il fiato e raffreddare i palmi incandescenti)
Una guida così, di città e territori, una guida dell'animo, non so se esista già, ma certamente dovrebbe.
:clap:
Neophytus
Troppo buono :reddy:
Slowhand
Non ho mai avuto il tempo di "rivalutare" Milano, sacrificata -nelle mie visite- a pasti consumati per necessità in orari occasionali tra un meeting e un briefing (non vale solo per le donne di Vecchioni. Milanese, lui, no?). Basta pensare che sono quasi vent'anni che mi capita di andarci, e solo due settimane fa ho trovato il modo di passare a via Broletto e solo per scoprire che il numero 34 non esiste (dove, presumibilmente, dovrebbe trovarsi, troneggia l'insegna di un parrucchiere); riservatezza lombarda, stanchezza di una fama oscura e indesiderata, o scherzo da cantautore? Chissà.
Isola: è un nome, ma abbastanza evocativo, direi, alla faccia di Umberto Eco. Luoghi chiusi e aperti insieme, come quelli che descrivi piantandoci sopra la faccia di Ezio, li ricordo nella Roma della mia infanzia, una città in cui esistevano ancora i "vinai" e sopravvivevano perfino delle "osterie", quelle vere. Ho un "flash" di mio nonno (morto quando avevo quattro anni) che mi tiene per mano ed entra dal vinaio sotto casa, a via Acaia, dove tutti si salutano e ci sono i tavoli di legno, quelli che si vedono nei film. E mia nonna che, quando risaliamo a casa, lo rampogna di brutto perchè ha portato un bambino piccolo in quel postaccio... 😃
A leggere i libri di Manzini sembra che Trastevere sia ancora un po' così; a leggere la storia recente di Roma sembra che certe forme di aggregazione spontanea e popolare (Roma è da sempre città di arrivo di migrazioni di ogni genere) siano possibili solo nei quartieri della periferia, anche se a tanti (pseudo) intellettuali modaioli piace riconoscerle al Pigneto, o a Testaccio per sentirsene protagonisti (è certamente più facile essere multiculturali indicando la finestra di casa Ozpetek agli amici che sorseggiano un mojito, piuttosto che ascoltando le urla dell'ambulante marocchino che sta litigando con la moglie nell'appartamento sopra il tuo).
Eppure Roma gode di un clima favorevole, che per almeno otto mesi all'anno invita a uscire di casa; ed è piena di piazze e slarghi e strade dove incontrarsi senza una ragione precisa e senza appuntamenti, solo per il gusto di stare su una panchina a prendere aria guardando le stelle e parlare di niente e di tutto; ma non bisogna lasciarsi ingannare, anziani in canottiera che fumano sul balcone o scendono a farsi due passi non se ne vedono, e le piazze, quando sono piene, lo sono di ragazzi attirati da qualche localino all'ultimo grido.
Per carità, hanno ragione anche loro. Forse sono le modalità di fruizione delle città e dei loro spazi, che stanno cambiando (sono già cambiate). Forse oggi Milano si è evoluta, ed è finalmente diventata come era Roma quarant'anni fa... 😉
Volevo dire una cosa sulle megalopoli, ma ho già disturbato troppo il Neo-flusso. Me la tengo per una prossima occasione, tanto le megalopoli stanno lì e non le sposta nessuno, come la sedia di Ezio. :beer:
Neophytus
Slowhand wrote
Volevo dire una cosa sulle megalopoli, ma ho già disturbato troppo il Neo-flusso. Me la tengo per una prossima occasione, tanto le megalopoli stanno lì e non le sposta nessuno, come la sedia di Ezio. :beer:
No, ti prego, interrompi il flusso e scrivi. Sarà di stimolo anche a me (che poi, domani scorterò il Generale a Brisighella :cool: e sarò "di consegna" per qualche giorno 🙂 )
Herzog
Slowhand wrote li ricordo nella Roma della mia infanzia, una città in cui esistevano ancora i "vinai" e sopravvivevano perfino delle "osterie", quelle vere.
Interrompo l'interruzione per un frettoloso contributo sulle Città Invisibili - tali sono, infatti, sia la Milano-isola di Neo, che la Roma dell'infanzia di Slow.
Quest'estate mi trovavo in un paesino dell'entroterra siciliano, e un uomo mi ha raccontato il paese che non c'è più, il paese di una vita fa: lì c'era una casa minuscola nella cui unica camera viveva un famiglia con 5 figli e un mulo, e i figli alla sera dormivano su alcune seggiole disposte in fila,, là i gradini su cui i ragazzi si sedevano alla sera a parlare di un futuro che non per tutti è arrivato, là ancora il palazzo da cui il barone, azzimato di bianco e affacciato al balcone per ricevere i saluti con il cappello in mano da parte dei passanti, gettava il mozzicone della sigaretta per godersi lo spettacolo misero e selvaggio dei mocciosi che si azzuffavano per conquistare quel prezioso lascito. E mentre raccontava tutto questo, l'uomo non ricordava: VEDEVA esattamene le cose che descriveva, le vedeva con occhi di carne, le indicava con le mani, le viveva, reali e concrete, più ancora del paese che io avevo in effetti di fronte.
Per dire che ogni luogo è molti luoghi, probabilmente sovrapposti.
Slowhand
Vabbe', allora continuo. :rolleyes:
Su consiglio di un amico (è un amico virtuale: Diego Geraci, chitarrista rockabilly di una certa fama) ho letto questa estate "City Blues", libro di Vittorio Bongiorno, personaggio che non potrei definire altrimenti che un bluesman siciliano (come lo chiamereste, voi, uno che si costruisce un amplificatore con una scatola di sigarette, per portarlo in giro e usarlo con la chitarra cigarbox altrettanto autocostruita?), che da molto tempo si è trasferito a Bologna. Si tratta di un libro che parla del "mood" musicale di tre città (Los Angeles, Berlino, Detroit), ma che in realtà parla di molte più cose, spaziando tra Ry Cooder (incontrato per caso mentre suonava, fuori programma, in un bar nel deserto) e il fantasma di David Bowie, tra esperienze intime e personali e considerazioni di valore universale. Costa poco, se vi capita tra le mani leggetevelo.
Vabbe', le megalopoli, dicevamo. Il capitolo dedicato a Los Angeles è in realtà un viaggio nel deserto, mentre la parte dedicata a Detroit è, per quanto ci riguarda, quella più interessante.
Oltre a essere la città dell'insalatina di Fred Bongusto, Detroit è una delle città-simbolo dell'industrializzazione americana; contesa a lungo tra francesi e inglesi, e poi tra inglesi e statunitensi, era conosciuta come la "Parigi del midwest", per la raffinata architettura dei suoi palazzi ottocenteschi. Poi, nei primi del '900, il signor Ford decide che Detroit è il posto giusto per mettersi a costruire automobili; in quegli anni Detroit conta circa 300.000 abitanti. Il signor Chrysler e i fratelli Dodge vanno a far compagnia al signor Ford; nel 1920 gli abitanti sono già diventati 1.000.000 e nel '40 più di 2.000.000. La guerra richiama nelle fabbriche altra gente, e nel '50, a meno di essere amici di Jimmy Hoffa, è praticamente impossibile trovare casa a Detroit, nella quale si muovono in cerca di lavoro più di 4.000.000 di persone. E, cosa non da poco, i neri (immigrati provenienti dagli stati del sud) cominciano a essere più dei bianchi, molti di più, sempre di più, e le tensioni razziali diventano pesanti.
La faccio breve: rivolta sociale nei '60, crisi petrolifera dei '70, crisi automobilistica degli '80. Le industrie delocalizzano, trasferiscono, chiudono.
Oggi Detroit conta meno di 800.000 abitanti, per l'80% neri disoccupati che vivono di espedienti. Interi quartieri sono disabitati, capita di percorrere strade grandi come highways senza incontrare nessuno. I reperti di "archeologia" industriale e urbanistica sono ormai molti di più degli edifici vivi. Ah, nel 2013 l'amministrazione comunale ha dichiarato la bancarotta, a causa di un debito superiore a 20 miliardi di dollari.
Nel libro di Bongiorno si svelano sia la difficoltà di vivere in una città preda della delinquenza piccola e grande, nella quale anche gli spostamenti devono essere organizzati e monitorati per evitare pericoli (e andare a piedi è considerata attività a rischio), sia la voglia di riscatto e di "rinascita" che anima i giovani, e che si riflette (anche) in una attività creativa e artistica che ne fa un centro di produzione musicale tra i primi al mondo.
Ora, Detroit non è forse un paradigma adatto per una "megalopoli"; ma certamente è una lezione da non trascurare. Giocare a Sim City può essere divertente, ma quando ci sono persone vere e vive che devono mangiare, dormire, e possibilmente incontrarsi, l'incapacità di governare la crescita, di prevedere e provvedere alle necessità (non solo materiali) di tutti, può generare una catastrofe.
Il futuro delle megalopoli è necessariamente quello di sottrarsi al controllo e alla programmazione, per poi collassare strutturalmente; sapremo recuperare le "Isola" che sarebbero la nostra salvezza?
Neophytus
Ecco, il tua racconto di Detroit è già una versione della fantascienza che abbiamo letto o vista al cinema. Questa versione, il cinema nordamericano "popolare" la sublima nelle saghe di quegli eroi che combattono contro eserciti di mutanti, ecc. ecc. - secondo un ormai vieto stilema, in grazia del quale il senso di colpa prodotto dalla più grande societa antropofaga mai apparsa sulla scena del mondo - la societè star & stripes, appunto - si ribalta in (ipocrita) promessa di redenzione. Gli USA non sono ovviamente soltanto quella spazzatura di cinema lì, ma proprio quel cinema lì svolge egregiamente la sua funzione su scala, oserei dire, poco meno che planetaria.
Altrettanto ovviamente, non ho certo io risposte da dare alla tua domanda, urgente quante altre mai. L'aneddoto, struggentissimo, del quale ci fa partecipe Herzog, ne amplifica... gli armonici.