Slowhand
Perdonerete (spero) l'esibizionismo: a proposito di Django, copincollo qui di seguito una cosa che scrissi -ehm- "qualche" anno fa, per un multi-blog al quale collaboravo, e che ora (fortunatamente) non esiste più. A rileggerla oggi la trovo un po' enfatica, però... quod scripsi, scripsi.
LO ZINGARO CHE SUONAVA COME PLATONE
Da qualche anno il 2 di novembre i giovani virgulti europei scimmiottano i loro omologhi americani e festeggiano Halloween: la notte delle streghe.
Io non lo so se Sophie (nomen omen? Certo, le suggestioni, in questa storia, sono davvero tante) fosse una strega, però era una donna; non so se facesse incantesimi, però era una zingara. E quella notte del 2 novembre 1928 la storia della musica prese una direzione che, altrimenti, non avrebbe mai seguito.
Fu infatti Sophie (involontariamente? Esiste, una Sapienza involontaria?) a mandare a fuoco la roulotte nella quale viveva insieme con il marito Jean Baptiste, un giovane suonatore di violino e di banjo che qualche settimana prima aveva inciso il suo primo disco, e aveva ricevuto la proposta di trasferirsi a Londra con l’amico fisarmonicista Louis Vola per incidere con Jack Hylton, un produttore allora abbastanza famoso che si interessava al neonato jazz.
Nell’incendio, il marito di Sophie perse l’uso della mano sinistra. Il 23 Gennaio del 1929 (il giorno prima del suo 19° compleanno) una complicata operazione chirurgica riuscirà a restituire la mobilità al pollice, all’indice e al medio della stessa mano; i tendini dell’anulare e del mignolo, purtroppo, erano irrimediabilmente danneggiati, e le due dita sarebbero rimaste per sempre ripiegate ad uncino verso il palmo della mano, con una mobilità ridottissima.
Per un violinista la perdita di due dita della mano sinistra rappresenta una disgrazia alla quale (ne sono certo) alcuni preferirebbero la morte. L’impossibilità, di fatto, di poter continuare a suonare.
Fu così anche per Jean Baptiste; ma suo fratello Joseph, musicista anche lui, un po’ per tirarlo su, un po’ perché effettivamente poteva essere utile, pensò bene di alleviare la convalescenza dell’invalido regalandogli una chitarra. Un piccolo gesto d’affetto, che ebbe conseguenze inimmaginabili.
La convalescenza durò poco meno di otto mesi. Nel 1930, quando fu ufficialmente dichiarato guarito e salutò per l’ultima volta i medici che gli avevano salvato la mano, il giovane zingaro che aveva imbracciato una chitarra per ri-educare la propria mano ferita aveva già sviluppato una tecnica prodigiosa, che da quelle sei corde traeva effetti mirabolanti.
Da allora in poi, con il nome di Django Reinhardt, quello zingaro girò il mondo suonando la chitarra; e dall’Europa arrivò a suonare con Duke Ellington, e con tutti i più famosi jazzisti degli anni ’40.
Ora, io magari sarò parziale, il mio punto di vista è fuorviato. Però, per farvi capire un po’ meglio CHI è stato Django nella storia della musica, immaginate cosa sarebbe stato il rock senza le chitarre. Fatto? Bene. E ora, credetemi, quando vi dico che, senza Django Reinhardt, la chitarra sarebbe rimasta uno strumento per appassionate serenate di latini innamorati, e Jimi Hendrix un ex-marine senza lavoro.
Le cose che Django fece, i pezzi che suonò, la maniera in cui visse sono ormai leggenda. Le notizie le potete trovare quasi ovunque, anche in rete ce n’è abbondanza. La storia della sua (altrettanto leggendaria) chitarra Selmer Maccaferri, disquisizioni tecniche sul modo in cui suonava. Paralleli musicali, analisi dei suoi gusti, persino delle sue scale. L’incontro con Segovia, la sfida (vinta!) con Coleman Hawkins, Benny Carter e Bill Coleman. Il campo di concentramento evitato suonando nei night di Parigi. Le bizze da divo, la passione per il biliardo, la meticolosa e maniacale precisione nel suonare, la capacità di improvvisare in modo impeccabile in qualsiasi tonalità.
Se proprio volete, potete leggervi tutto questo, e magari saprete qualcosa in più, tutte quelle cose che io non ho potuto dirvi per non fare diventare questo post una riedizione dei Fratelli Karamazov.
Però, ascoltate il consiglio di un fesso: lasciate perdere. Trovatevi “Nuages”, “Daphne”, “Minor Swing”, “Lady Be Good”, e “I Saw Stars”, e ascoltate. Ascoltate le “Rome Sessions”.
Non vi basta ancora?
Allora vi dico io una cosa, ma tenetela per voi e non sbandieratela ai quattro venti, perché non tutte le Verità sono per tutte le orecchie. Mi fido di voi.
Ogni musicista, ogni chitarrista (sia un giovane alle prime armi, sia il professionista più affermato e capace) sogna di arrivare a tirare fuori dal proprio strumento qualcosa di memorabile. Alcuni ci riescono, in modo diverso: dalle cascate di note di Blackmore ai singulti di B.B. King, dalla pulizia di Knopfler alla fantasia di Zappa, dalle sonorità elettroniche di Beck e May alla semplicità in nylon di De Lucia.
Bene. Avvicinatevi, che certe cose bisogna dirle a bassa voce.
L’assolo di Django in “I Saw Stars”, del 1934, è la manifestazione reale dell’idea platonica di “assolo di chitarra”. L’epifania del Sublime applicato alla musica e alla chitarra. Tutti i critici che ne capiscono qualcosa ne hanno parlato come dell’assolo “perfetto”: ovvero, più di così, su una chitarra, non si può fare, con buona pace di tutti quelli detti prima, e di Montgomery, McLaughlin, Clapton, Hendrix, Page, e di tutti quelli che volete voi.
Ecco. Quando da qualche parte trovate il nome di Django Reinhardt, ricordatevi che era lo zingaro che, con due dita, ha sunato, su una chitarra, l’assolo perfetto.
"Il jazz è americano, ma la musica non ha patria. E il jazz è musica. Noi suoniamo un tipo di jazz che è in stretti rapporti con la cultura europea, ma è sempre jazz. Perché il jazz ha regole espressive da cui non si può derogare".
(Django Reinhardt)