Apriamo la settimana con una pietra miliare della black music: un blues dalla struttura leggermente irregolare (tipica di molte canzoni di Robert Johnson, che suonando senza band si abbandonava moltissimo all'improvvisazione, manipolando genialmente lo standard delle 12 misure), poi ripreso in innumerevoli cover, tra le quali la più famosa è quella degli Stones (che, curiosamente, nei credits ne attribuirono la paternità a "Woody Payne", uno degli pseudonimi di Johnson), che, però ne fecero un arrangiamento con echi country che mal si addice all'intimismo del pezzo (poi, certo, gli Stones sono gli Stones, gli è venuta bene uguale).
Tra le varie leggende del rock, una riguarda proprio gli Stones e Robert Johnson: si dice che quando Brian Jones fece ascoltare per la prima volta a Keith Richards un nastro con le canzoni di Johnson, Richards abbia chiesto "bravo, ma chi è quell'altro che suona con lui?": la tecnica chitarristica di Johnson è così evoluta che, in effetti, si stenta a credere che tutti quei suoni provengano da uno strumento solo. Di recente si è avanzata l'ipotesi -basata sia sull'insolita tonalità nella quale sono incisi i suoi pezzi, sia su alcune insormontabili difficoltà tecniche dello strumento in alcuni passaggi, sia sul timbro di voce di Johnson- che le incisioni che conosciamo siano state manipolate già nella prima fase di incisione, velocizzandole rispetto al tempo originale effettivamente suonato dal nostro. Ve posso di' chissenefrega? L'influenza di Robert Johnson sui padri del rock è stata immensa, e tanto basta...
Love in vain, Robert Johnson